11 LUGLIO - 5 OTTTOBRE 2025
MUSEO NAZIONALE DEL RISORGIMENTO , TORINO
“Un grande ritratto non ha eguali nella sua essenza artistica, umana e persino filosofica.
È questo che cerchiamo inconsciamente.”
Collezionare Ritratti
Nasce semplicemente così: vedo la collezione Bachelot, la trovo notevole per la qualità suprema e per la varietà degli autori che rappresentano la storia della fotografia dell’ultimo secolo e l’inizio della nostra contemporaneità. Trovo notevole questo sguardo attento all’uomo, alla sua umanità. Trovo notevole l’attenzione all’ intimità, alla dolcezza, indice di collezionisti sensibili, particolarmente sensibili alla poesia, all’anima dell’uomo. Dalla consapevolezza dei collezionisti nasce l’intenzione di dedicare una mostra alle numerose fotografie di ritratto presenti nella loro collezione. Si tratta però, di intendersi su cosa sia il ritratto fotografico e con quali presupposti sono state selezionate le fotografie in collezione. Merita la premessa che la fotografia, proprio per la sua tecnologia, non richiede come in pittura la staticità dei soggetti. Anzi la fotografia rovescia il senso tradizionale del ritratto pittorico. A questo punto si può dire che il ritratto è sicuramente quello dell’uomo ma colto in momenti, situazioni, istanti diversi. Poco importa se il soggetto si è messo volontariamente in posa davanti al fotografo o è stato colto durante un reportage o ancora è stato recuperato durante le scene di un film.
Poco importa se il soggetto è famoso oppure no. Ciò che importa è ciò che riusciamo a cogliere dell’essenza del soggetto proprio grazie all’ espressione, all’intensità del sentimento, dell’emozione che il fotografo è riuscito a fermare con un clic. Il ritratto diventa simbolo vivo di una storia, di una tragedia, di una vita semplice o difficile, di una condizione psicologica o di un attimo in una vita vissuta nella normalità. Diventa spontaneo il tentativo di posizionare i ritratti, selezionati dalla ampia collezione, in alcuni temi come quello dei miti, dell’emozione, della società e dell’attualità. Naturale che tutto emoziona ma alcuni ritratti folgorano: come il giovane sguardo di “Lella” di Boubat, del 1948. Lei guarda l’orizzonte con il vento che fa muovere i capelli e lascia attillata la camicetta ad intravedere il reggiseno: è l’essenza della purezza semplice, di uno sguardo rivolto al futuro della propria vita che va oltre al momento storico in cui è stata scattata. Ancora recentemente Boivin Thomas, nato nel 1983, ci lascia un ritratto “L’Orillon”, in bianco e nero, che sembra un rimando a quello di Boubat. Il mistero, la bellezza, l’affascinante filtro sono quanto di più emozionante ci può essere in un ritratto. La scelta di prendere proprio “Lanesville” (del1958) di Saul Leiter come immagine guida della mostra è per quell’intreccio di emozioni che riesce a trasmettere grazie al fascino, al mistero, alla bellezza. Una immagine che appartiene allo stile unico di Saul Leiter e al suo modo di guardare la donna, l’uomo, di attingere ai colori e all’immancabile movimento che li avvolge.
I soldati di Gilles Caron, sia nel 1967 in Israele sia nel 2012 in Irlanda, sono il ritratto della solitudine, dello smarrimento dell’uomo, sono il simbolo di una ferita sempre aperta di ogni guerra. Una ferita della nostra società nella quale il primo piano di “Donna e bambino sul letto” (1966) mette a fuoco la testimonianza di Bruce Davidson delle condizioni sociali negli anni ’60 ad Harlem. Così come i ragazzi anni ’90, nelle fotografie di Judith Joy Ross sottolineano l’autentico impegno sociale e politico dell’artista. Nella società la foto del travestito di Pierre Molinier, – fa parte di un sapiente spogliarello ripreso in uno studio nel 1983 – denuncia una realtà che ancora scotta e infiamma. E ancora, quanto il ritratto ci consente di leggere la silenziosa complicità dell’uomo con altri soggetti come l’identificazione dello zingaro con il suo cavallo nella dolcissima iconica foto di Joseph Koudelka in Romania. Dal ritratto si evince la storia della fotografia e la storia dell’ultimo secolo con i suoi progressi, le sue contraddizioni, successi e orrori. Ritrarre perché incantati o incatenati allo sguardo del personaggio che davanti al fotografo esprime il suo mondo, il suo momento, la sua storia, l’avvenimento di quell’istante. Saper cogliere e quindi saper ritrarre con maestria è un’operazione semplice, con un po’ di fortuna, seppur complessa quando la ricerca è necessariamente faticosa per la situazione in cui il fotografo si trova o per la ritrosità del soggetto.
Il ritratto ci avvicina all’uomo con l’intento di saper leggerne il significato. La combinazione di tempo-spazio fa scattare le informazioni depositate nella nostra mente della storia, della geografia, della società o semplicemente la percezione degli accadimenti attraverso i racconti, le immaginazioni. L’apparente verità di ciò che vediamo è fascinosamente filtrata dalla nostra verità agganciata alla rete spesso sottile delle nostre convinzioni, convenzioni, semplificate catalogazioni. Il guaio è che sia in pittura che in fotografia il nodo che si pone non appartiene al semplice dominio della fisica: assomiglia o no al soggetto vivo, rientra semmai e a vigoroso titolo, in quello della metafisica. Ovvero nel ritratto fotografico si dovrebbe realizzare una sintesi della vita, della storia personale, dell’opera degli uomini che conosciamo: l’attendibilità dunque che cerchiamo e che separa la banalità tecnica dal capolavoro è restituire il senso di quella vita e non semplicemente indurci a esclamare: “È davvero somigliante, lo ricordo proprio così!” Per dirla con una parola aristotelica si deve realizzare, fissandola in saecola saeculorum, la sua entelechia. In modo semplice: in ogni uomo che ha un destino - morire tragicamente, scrivere un libro fondamentale, innovare la scienza dell’uomo - quel destino è presente in ogni istante, anche prima che si compia. In ogni punto della sua vita sarà inesorabilmente quello.
Come ben aveva compreso sant’Agostino: in ogni uomo c’è contemporaneamente passato, presente e futuro. La fotografia dovrà fissarne quell’attimo eterno, rendendolo perennemente riconoscibile. Una foto di Romy Schneider, uno tra i tanti miti, scattata insieme a Luchino Visconti, anni prima del suo drammatico destino, se riuscita, dovrebbe contenere la entelechia di quella conclusione, farla leggibile e presente. Come dice Aristotele: ogni entelechia è un frammento di eternità. In questo senso la superstizione che il ritratto fotografico è un consegnarsi in mano di altri, al destino alla morte, a Dio (e all’ignoto di se stesso) ha una sua piena, inquietante giustificazione. In questo senso dalla collezione Bachelot possiamo raccontare una sorprendente storia di cosa la fotografia, catturando il mondo, è riuscita a farci vedere negli ultimi cento anni. I ritratti della collezione Bachelot non sono mai scontati, sembra che il collezionista indaghi, scruti in un mondo distante, non patinato, non intriso di bellezza, paillete ma piuttosto in un’assenza, in un attimo di abbandono, in una distanza dal mondo. Il fil rouge dei ritratti che i collezionisti ha pazientemente guardato, trovato, ammirato e avvicinato a se, sembra essere quell’attimo di sospensione dal mondo che i protagonisti delle immagini inseguono alla ricerca della loro anima.
Tiziana Bonomo - Curatrice