fotografie: Adriano Padovani e Elena Franco

Logo di "Les Misérables" in stile tipografico, con lettere nere e rosse su sfondo trasparente.

Tiziana Bonomo

Nan Goldin, l’obbligo di guardare

Nan Goldin a Milano, all’Hangar Bicocca: una mostra che è d’obbligo vedere, di più, ascoltare. Verrebbe da dire: amare con dolore e intensità.

“Quando fotografo non scelgo le persone che voglio ritrarre; i miei scatti scaturiscono dalla mia vita. Nascono dalle relazioni, non dall’osservazione”.

Vero. Quando guardi le sue foto tu sei lì con lei, in quella scena, di fronte ai suoi amici, alle persone con cui lei condivide ciò che offre la devastante e travolgente vita. La vita di tutti i giorni quella che ognuno sceglie di fare a modo suo. Un po’ si sceglie un po’ si trova così come ti travolge e si impone.

 Un insolito e appropriato allestimento nel nero spazio dell’Hangar Bicocca accoglie otto installazioni che preferisco definire isole con all’interno un susseguirsi di immagini attraverso degli slideshow accompagnati da differenti tracce sonore.

Un’esperienza singolare che fa rivivere l’originale modalità della Goldin di proiettare le sue diapositive nei locali. Tutto nasce con The Ballad of Sexual Dependency una serie di diapositive di una vita condivisa con chi faceva uso di droghe, con varie identità di genere in mezzo a matrimoni, a tanto sesso, a segni di violenza soprattutto sulle donne. Un pezzo di vita importante, la sua vita che ricorda quella di molti ragazzi e ragazze della sua età ma che negli anni ‘70 e ‘80 quel genere di vita veniva nascosta alla società. Il coraggio della documentazione e anche di una certa denuncia apparteneva ai reporter non ai soggetti coinvolti. Nan Goldin come protagonista ne fa, con la sua indiscussa abilità fotografica, una dote: ritrae se stessa e i suoi amici da molto vicino, in attimi di sorprendente intimità, di sera, di notte, al mattino presto cioè nelle ore canoniche del ritrovo del piacere condiviso. Le luci virano spesso al giallo e quando c’è la luce del giorno è una luce sfacciata, quasi una denuncia della violenza, di ciò che si fa più fatica ad ammettere a se stessi e agli altri. In quegli anni Nan Goldin diventa un’eccezione dichiarando più volte che è stata la fotografia a salvarla. Lei inserisce manualmente le foto scattate e selezionate nel proiettore per mostrarle al suo pubblico .... quello di allora. Goldin ricorda ”il punto è quello che ho fatto con le foto. È come realizzare un lavoro cinematografico a partire da immagini statiche, e credo che la mia abilità risieda nel montaggio”. Un lavoro che non poteva rimanere nascosto e che viene costantemente rieditato e aggiornato con ritmo. Un ritmo accompagnato da diverse musiche: una colonna sonora eccezionale che fa vibrare ogni singola immagine affondando nella sua vita, nella nostra vita. Uno spaccato sociale così genuino che non ha bisogno di testi, didascalie. Succedeva allora succede oggi con la stessa convinzione coinvolgimento: una dichiarazione di fragilità, insicurezza, paura, piacere. Un affondo così lucido da sembrare un ossimoro. Nan Goldin diventa la moschettiera che sciabola con le immagini per ottenere giustizia in un mondo dove sembra non esserci.

Così Nan Goldin mette a fuoco nell’isola di Sirens i piaceri e la sensualità che le droghe possono indurre o in Memory Lost le perdite di persone care causate dall’Aids e nuovamente da overdose: sempre con una poetica di narrazione che concilia immagini e suoni in un fluire magnetico. La fragilità più ossessionante, disturbante, inquietante è quella della sorella da cui tutto parte. Barbara Holly Goldin si suicida all’età di 18 anni e Nan Goldin mette in scena una installazione composta da più parti: tre grandi schermi per le immagini che fanno da cornice alla installazione di un letto con la figura di cera di una giovane donna su un piccolo letto tenuta ferma dalle mani di due uomini che evocano i medici dell’ospedale psichiatrico, mentre il letto e il comodino si ispirano alla stanza di una clinica dove Goldin era stata ricoverata per disintossicarsi. Accanto una seconda figura appesa in alto simboleggia il padre sanguinante. La scena e i video che durano 35’17’’si vedono da una altezza di circa 20 metri, in piedi, appoggiati ad una balconata.

Nan Goldin non è mai retorica, mai. Rimane asciutta nel suo modo di porre immagini e suoni e contemporaneamente il ritmo che insegue nei montaggi, nella cura maniacale con la quale crea la sequenza delle fotografie, diventa il suo timbro poetico. Compie un’operazione inusuale per denunciare una società, quella americana di periferia, conforme a regole e convenzioni rigide. Per sua sorella Barbara apparire anticonformista nel tentativo di ribellarsi alla sua famiglia, a quel tipo di società è stato come dichiarare la sua pazzia, la sua malattia a non apparire conforme agli altri. Una pazzia da ricovero in istituti psichiatrici che l’hanno portata al suicidio. Immagini di album di famiglia, con quelle di natura e del ricovero creano una sensazione di smarrimento, di malessere.

Nan Goldin riesce sempre a raggiungere ciò che vuole esprimere e lo fa dando voce alla sua fotografia continuando a ricercare nell’arte, nel suo passato, nei suoi pensieri messaggi di riflessione e di conoscenza.

Una mostra che meriterebbe per ogni sezione un articolo particolare ma è solamente da vedere: tutta.